IL TRIONFO
DEL COLORE A VICENZA
I capolavori
della grande stagione settecentesca dell’arte veneta, patrimonio del Museo
Pushkin di Mosca, arrivano eccezionalmente in Italia per essere ammirati dal 23
novembre 2018 al 10 marzo 2019 nella mostra “Il Trionfo del Colore. Da Tiepolo
a Canaletto e Guardi. Vicenza e i Capolavori dal Museo Pushkin di Mosca”.
L’esposizione ha avuto un’anteprima russa al Museo Pushkin di Mosca, che ha
registrato un grande successo di pubblico ed è stata visitata anche dal Primo
Ministro Giuseppe Conte, durante il suo ultimo viaggio istituzionale a Mosca lo
scorso 24 ottobre.La mostra, giunta ora a Vicenza, coinvolge due sedi
espositive della città. Prende avvio nelle prestigiose sale del piano terra di
Palazzo Chiericati, Museo Civico e prosegue alle Gallerie d’Italia – Palazzo
Leoni Montanari, museo di Intesa Sanpaolo a Vicenza, dove è esposta la Madonna
con santi di Giambattista Tiepolo proveniente da Mosca, in dialogo con i
dipinti della collezione del Settecento veneto della Banca conservata nel
Palazzo vicentino, tra i quali il celebre corpus di dipinti di Pietro Longhi.
La mostra è prodotta da MondoMostre e congiuntamente promossa dal Comune di
Vicenza e dal Museo delle Belle Arti A.S. Pushkin di Mosca e Intesa Sanpaolo,
in doppia veste di sponsor e partner culturale, in virtù della sua sede museale
vicentina e nell’ambito del Progetto Cultura della Banca. Patrocinata
dall’Ambasciata della Federazione Russa in Italia e dall’Ambasciata d’Italia a
Mosca, la mostra è curata da Victoria Markova, capo Dipartimento di cultura
italiana del Museo Pushkin, insieme al Prof. Stefano Zuffi, storico
dell’arte.Il corpus delle 64 opere esposte è costituito da 24 dipinti
provenienti dal Pushkin, tra cui Il ritorno del Bucintoro all’approdo di
Palazzo Ducale di Canaletto, e da 40 opere selezionate dall’ampio patrimonio
dei Musei Civici di Vicenza, ricco di oltre 50.000 pezzi. Nella sede di Intesa
Sanpaolo a Palazzo Leoni Montanari sarà esposta una delle opere del Puskin
insieme alle opere della collezione. In attesa del nuovo allestimento della
sezione Sette-Ottocentesca di Palazzo Chiericati, la mostra costituisce un importante
momento per le opere della collezione del Museo stesso, che torneranno a essere
esposte dopo oltre un decennio. Il percorso mette in scena lo sviluppo
dell’arte veneta del Settecento e il suo impatto deflagrante sull’arte europea.
Un viaggio che avvicina i visitatori ai protagonisti dell’epoca quali
Giambattista Tiepolo, Giambattista Pittoni, Luca Carlevarijs, Giambattista
Piazzetta, Antonio Giovanni Canal detto Canaletto, Francesco Guardi e Pietro
Longhi. Artisti noti e attivi in ogni angolo del vecchio Continente, furono
apprezzati, imitati, seguiti, collezionati ed ebbero grande seguito, diventando
modello, nell’esecuzione di soggetti sacri e profani, per le generazioni
successive. Si potrà fruire della bellezza delle loro opere nelle due sedi della
mostra ma anche in chiese, palazzi e ville della città e dintorni, percorrendo
gli itinerari che il territorio naturalmente offre come ideale proseguimento
del racconto artistico. Tra le tappe consigliate il Palladio Museum e le tre
ville a pochi minuti da Vicenza, che rappresentano i maggiori capolavori ad
affresco del Settecento europeo: Villa Valmarana ai Nani, Villa Cordellina e
Villa Zileri che, anche per le pitture che li adornano, sono “Patrimonio
dell’Umanità”. “Abbiamo fatto conoscere all’ampio pubblico moscovita e russo
l’arte veneta e i tesori d’arte del nostro Museo e di Palazzo Leoni Montanari –
sottolinea Francesco Rucco, Sindaco di Vicenza – Ora offriamo ai veneti e ai
nostri turisti la possibilità di ammirare i tesori dell’arte veneziana oggi
patrimonio del Pushkin e avere un “saggio” di quanto il museo civico di Palazzo
Chiericati offrirà stabilmente non appena ne sarà completato il nuovo
allestimento”. L’eccezionalità di questa mostra è data dalla possibilità di
contemplare, tutti insieme, oltre sessanta capolavori come l’Immacolata
Concezione e La Verità svelata dal Tempo di Giambattista Tiepolo, la Morte di
Sofonisba e Olindo e Sofronia di Giovanni Battista Pittoni, ma anche le vedute
di Canaletto e le fantasie architettoniche di Francesco Guardi e ancora
acqueforti e sculture in marmo e in terracotta. Una straordinaria avventura
visiva che consente di percepire pienamente una grande stagione che ha visto la
nostra arte – con Giambattista Tiepolo, ma anche Sebastiano Ricci, Pittoni e
Canaletto – essere esempio assoluto per quella occidentale. “Il Trionfo del
colore mette insieme i principali valori che fondano il Progetto Cultura della
nostra Banca, a partire dalla valorizzazione delle straordinarie collezioni
d’arte Intesa Sanpaolo e dalla condivisione di iniziative con prestigiose
istituzioni nazionali e internazionali. Abbiamo portato al museo Pushkin i
nostri dipinti del Settecento veneto e ora ammiriamo i capolavori provenienti
da Mosca e quelli conservati nei Musei Civici di Vicenza. Si conferma così un
rapporto di profondo dialogo e scambio culturale sia con la Russia, sia con
l’amministrazione di Vicenza, dove ha sede la prima delle Gallerie d’Italia cui
la Banca ha dato vita”, commenta Michele Coppola, Direttore Centrale Arte,
Cultura e Beni Storici, Intesa Sanpaolo.
MUSEO
CIVICO DI PALAZZO CHIERICATI
Sala
1 Il
trionfo del colore
Per Venezia il Settecento si apre con la pace di
Passarowitz del 1718, a porre fine al secolare stato di guerra con i Turchi, e
si chiude nel 1797 con quel trattato di Campoformido che segna il termine
dell’orgogliosa indipendenza di una delle maggiori potenze europee e della più
duratura repubblica della storia: la Repubblica Serenissima. Se dopo oltre
mille annila Dominante scompare dalla scena politica del mondo occidentale, il
suo ultimo secolo di esistenza segna un nuovo periodo d’oro. La città, da
sempre centro cosmopolita e culturalmente all’avanguardia,tanto da essere meta
obbligata del Grand Tour, produce
opere di eccezionale importanza nei campi della letteratura, del teatro, della
musica e delle arti. Le sonate di Benedetto Marcello e il pathos di Antonio
Vivaldi, la voce di Farinelli e della Bordoni, l’ingegno di Francesco Algarotti
e la misura di Giorgio Massari riflettono il sentire di un secolo in cui
Venezia riacquista il ruolo di capitale dell’arte – ora assieme a Parigi –
anche grazie a un nuovo impulso dato alla pittura, con gli ultimi protagonisti
capaci di rielaborare, ancora una volta, la fortissima immagine del mito della
città. Quella straordinaria opera collettiva, intreccio di economia, politica,
società e arti, che incarna l’essenza stessa di Venezia fin dall’emblematico
episodio della serrata del Maggior Consiglio del 1297.Questa mostra racconta un
frammento di grande Storia, filtrata attraverso alcuni tra i massimi capolavori
di molti dei protagonisti del secolo. Artisti partiti da Venezia per
conquistare l’Europacon il proprio pennello, portando nuovamente l’arte
lagunare ad eccellere tramite nuovi temi e stilemi. Da Sebastiano e Marco Ricci
a Giambattista e Giandomenico Tiepolo, da Londra a Madrid a Würzburg, il colore
e il segno veneziani trionfanti.Una narrazione intessuta sul dialogo tra le
opere didue tra i più importanti poli museali europei: il Museo Statale di
Belle Arti A.S. Puškin di Mosca e la Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati
tra i più importanti poli museali europei.
Sala 2 La riscossa della pittura veneta
La
riscossa della pittura veneta è segnata dal bellunese Sebastiano Ricci. Personalità
fortissima e passionale, bigamo e falsificatore, implicato in vicende criminali
da cui deve fuggire, e quindi gran viaggiatore, Ricci svolge la propria pittura
in modi sontuosi, rifacendosi alla grande tradizione cinquecentesca, con una
eleganza e facilità allora ignote. La sua creatività narrativa, l’impaginazione
teatrale, la qualità decorativa sono fondamenti essenziali della pittura di
storia per tutto il Settecento e per il passaggio dalla retorica barocca alle sottigliezze
rococò. Con il nipote Marco Ricci, precursore della veduta paesistica,
Sebastiano realizza la grandiosa Prospettiva
di rovine con figure che apre la mostra, una delle opere più note e
studiate del Settecento veneto. In essa vi è la scoperta di una nuova
luminosità atmosferica calata in una grandiosa messa in scena, strutturata su
di un’alternanza di piani in luce e ombra e caratterizzata dalla pittoresca
coesistenza di rovine e monumenti della classicità accanto a statue e figure. È
l’avvio di quel nuovo racconto della natura che vedrà protagonista assoluto
Luca Carlevarijs, il primo pittore capace di porre in armonico rapporto il
motivo architettonico con la libera rielaborazione creativa del pittore, in una
felice sintesi di realtà e immaginazione. Il suoPaesaggio con arco trionfale e monumento equestre è un “capriccio”,
un punto d’arrivo nell’elaborazione della “veduta ideata”. Ecco allora un ponte
a congiungere una riva all’Arco di Costantino addossato a una torre medievale e
con anteposto il Monumento equestre a
Luigi XIV di Bernini. La visione di una Roma barocca erede di quella
classica e medievale, preludio di quel vedutismo che diventerà tra i più
importanti fenomeni europei, oggetto di fama e d’insegnamento in termini di
luci e atmosfere, e di influenza sul gusto, di portata davvero storica. Accanto
alla tela di Carlevarijs il suo pendant:
il Paesaggio con fiume e mulino di
Carlo Eismann Brisighella, peculiare per luminosità e armonie cromatiche. Con,
sulla parete opposta, le tele di Francesco Aviani protagonista, in tre Paesaggi ove non rinuncia al soggetto
biblico, di una felice sintesi delle elaborazioni
scenografico architettoniche maturate nell’ambito dei pittori di prospettiva
con quelle fantastico naturalistiche dei pittori di paesaggio.
Sala 3
Un secolo in due capolavori
Un secolo in
due capolavori. È per la chiesa di Santa Maria dell’Araceli di Vicenza,
altissimo esito del genio di Guarino Guarini, che Giambattista Piazzetta e
Giambattista Tiepolo realizzano due tele che entreranno nei manuali di storia
dell’arte. Piazzetta compiendo, con l’Estasi
di san Francesco, un’invenzione tra le più ispirate di tutta la pittura
sacra veneziana settecentesca, di cui si afferma quale interprete in grado di
contendere il primato a Sebastiano Ricci. Nella grande ancona, posta
sull’altare di destra, Piazzetta si misura direttamente con la sensualità di
tocco tipica della grande stagione barocca secentesca, in un gioco serrato di
valori cromatici legati da una nervosa struttura pittorica, corposa e
drammatica. L’acme della scena nella magnifica invenzione dell’angelo a
tamponare il costato di Francesco, presentando il santo quale mistica
incarnazione di Cristo, da cui il suo essere posto in Pietà. A questa
impressionante composizione risponde, intorno al 1734 e in pendant sull’altare di destra, Giambattista Tiepolo con un soggetto
ideale per una chiesa retta dalle Clarisse Povere dell’ordine francescano,
fervido sostenitore del dogma dell’Immacolata
Concezione. Che Tiepolo rende in una tavolozza che guarda alla luminosità
delle opere di Paolo Veronese, svolta nel racconto di una Madonna mai toccata
dal peccato originale, incarnato dal serpente ai suoi piedi. Da ammirare è
l’argentea veste dell’algida e allungata figura della Vergine, lo sguardo basso
nel perfetto ovale del viso, ritta in piedi sul globo celeste e in lieve
torsione a esaltare i riflessi dell’avvolgente seta fasciante, l’ampiezza e
complessità del gran manto svolazzante dai tratti di puro illusionismo.
Magnifici poi i gigli reclinati, a destra in basso: rappresentano la natura
vinta e trasfigurata dal segno divino posto in un corpo che si mantiene umano,
attorniato da un volo d’angeli quant’altri mai realistico. Accanto a queste
grandi pale d’altare la visione del sacro offerta da un figlio geniale quanto
il padre, Giandomenico Tiepolo, e la sensibilità materica di Marinari e
Morlaiter nel dar corpo e spirito ai santi.
Sala 4 Il sacro di un secolo
Sulla scia di Ricci, Piazzetta e subito di Tiepolo
si collocano solerti alcuni maestri della sua generazione, attivi in vari paesi
europei: come Gaspare Diziani, che vive a Dresda prima di diventare presidente
dell’Accademia di Venezia, protagonista di una pittura di grande rapidità e
sicurezza tecnica in una felicità esecutiva esperita ne Il ritrovamento di Mosè, ancora pregno di certo tenebrismo barocco
della formazione. In questo assai distante dal bel linguaggio scenografico
della grande tela di medesimo soggetto compiuta da Giovanni Battista
Crosato, attivo in Piemonte per la cosmopolita corte sabauda, oppure dall’arte
di Francesco Fontebasso, che lavora a San Pietroburgo. Mentre il malinconico e solitario Francesco Zugno,
nella giovanile Santa Cecilia,
chiarisce il suo apprendistato tiepolesco in un’ancona d’originalissima
distinzione per il tocco morbido a segnare le marezzature dei tessuti e
addolcire le movenze, in una ricerca di equilibrio compositivo e compostezza
espressive che raramente è capace di raggiungere. Una tela, quella oggi
moscovita, efficace proprio a chiarire la dipendenza dalle invenzioni di
Tiepolo – che qui è palese anche nell’apocrifa firma ‘Gio. Batta Tiepolo. 1742’
– solitamente sottese a un comporre che solo verso il termine della carriera
condurrà Zugno a delineare in forme neoclassiche.
Sala 5
Le monarchie venete
A un decennio dall’Araceli, entro il
1744, Tiepolo avvia un’altra impresa vicentina, avendo a committente quello che
Carlo Goldoni definirà “l’uomo più dotto e più eloquente della curia di
Venezia”, il celeberrimo giureconsulto Carlo Cordellina. Che a Montecchio
Maggiore costituirà una di quelle monarchie territoriali caratteristiche
dell’entroterra veneto del Settecento, chiamando poi Tiepolo a compiere un
formidabile ciclo d’affreschi che saranno cornice per incontri tra letterati,
scienziati e intellettuali, ambasciatori, cardinali,
nobili e teste coronate. Tutti attratti dal fascino dell’eloquenza di
Cordellina che aveva così colpito un suo ammiratore, il senatore Pietro
Vendramin, da indurlo a farne immortalare le fattezze, per poi donargli il
ritratto in marmo, il busto che si ammira in questa sala. Il cui fisiologico pendant è in quello di Ottone Calderari, architetto sodale di
Cordellina che ne volle tramandata l’effigie per il tramite dello scalpello del
veronese Giovanni Battista Bendazzoli. Di cui è testo tipico per vivacità di
modellato e vibrato chiaroscuro, uniti a una minuziosissima e fin didascalica
ricerca del dettaglio, dal profluvio di ricci della parrucca alla ricchezza di
decoro della veste che giunge all’apice nello jabot di pizzo, tutto traforato a
trapano a suggerirne la trasparenza impalpabile. Una coppia di sculture che
introduce magnificamente al clima sotteso alla commissione a Tiepolo della
luminosissima tela per soffitto con Il
Tempo che scopre la Verità e fuga la Menzogna compiuta non si sa per quale
dei palazzi di Cordellina: se proprio la villa di Montecchio Maggiore, la
proprietà di stradellaPiancoli a Vicenza o quella a Venezia, in campo San
Maurizio.Nel felicissimo tratto a penna e acquerello del foglio con Il Tempo svela la Verità ammiriamo un
Tiepolo impegnato a fissare rapidamente una prima idea che imposti un tema a
lui molto caro. Ove troviamo una classica coppia tiepolesca: l’anziano con la
fanciulla a tradurre visivamente il motto Veritas
filiaTemporis. Ecco le stanche carni del canuto e alato Tempo – il Volat irreparabile tempus di Ripa –
riconoscibile dalla falce e dal serpente sotto i piedi, contrastare con la
pelle setosa di una Verità che diviene pretesto per esibire un nudo femminile
d’evidente connotazione sensuale, la riflessione sul contenuto
allegorico-moraleggiante di chiara matrice illuministica associata a quella sul
potere della Bellezza. Tanto che l’altra protagonista canonica della scena,
l’Ignoranza, appare del tutto secondaria nella composizione, posta all’estrema
destra mentre precipita verso il basso. Un dipinto i cui riferimenti
all’Illuminismo sembrano palesarsi nella Luce che la donna regge nella mano,
che diviene luce della Ragione. Tiepolo esprime qui tutta la sua arte,
facendosi il massimo interprete dell’ultima, grandiosa affermazione della
pittura di Venezia in Europa. Riprendendo la tradizione cinquecentesca, la
gloria coloristica di Tiziano e Veronese, la riscossa veneziana dominerà presso
i collezionisti, determinerà il gusto dei paesi di lingua tedesca, si spingerà
a Pietroburgo e darà lezioni in Castiglia, ben apprese da Francisco Goya y
Lucientes. La flemma e l’equilibrio sono le caratteristiche precipue di un
Louis – Lodovico – Dorigny capace, accanto alla dominante personalità di
Sebastiano Ricci, di ritagliarsi un ruolo significativo nella dimensione
veneta. Un Dorigny di cui cogliamo l’immediatezza espressiva nella posa di tre
quarti dell’Autoritratto
cinquantenne: informalmente atteggiato e abbigliato, con una giacca da casa,
senza cravatta e con lo jabot decorato da un elegante merletto a fuselli tenuto
aperto sul collo, sfoggia la ricca parrucca che scende a riccioli sulle spalle
in ossequio alla moda francese imperante nei primi decenni del Settecento.
L’autocertificazione del ruolo raggiunto ridefinendo i decori di tanti palazzi
veneti, la cui memoria è in alcuni casi lasciata a radi frammenti. Come la tela
quadrotta raffigurante la Concordia,
tratta da un fregio da soffitto e fedelissima all’Iconologia di Ripa cui si contrappone la vigorosa, florida e
tornita Andromeda, sola testimonianza
pervenutaci del ciclo di affreschi compiuto da Dorigny per il vicentino palazzo
Capra.A fronte di Dorigny spicca Giovanni Battista Pittoni, la cui arte avrà
duratura influenza nell’area germanica per la capacità di gestire il colore in
audaci contrapposizione cromatiche e panneggi di croccante fragranza definiti
su di una saldissima grafica esaltata dall’abbacinante luminismo. Dettati magnificamente
dalla splendida materia pittorica, il fluente decorativismo e l’elegante
profusione di accessori, fiori e ghirlande, della tela con Diana e Atteone. A destra il gruppo delle ninfe attornia in una
nube dorata Diana, aiutandola nella svestizione; relegato a corollario di fondo
il macabro dettaglio di Atteone, divorato dai suoi cani, viene risolto in
squillante e lieve nota cromatica. L’attenzione si sposta così dal racconto
alla suggestione sensuale e al dettato di limpido erotismo della scena, rendendola
uno dei testi più significativi della pittura rococò veneziana d’ambito
mitologico.
Sala 6 Metamorfosi dell’immagine
La sperimentazione intorno alla metamorfosi
dell’immagine è interpretata in due straordinarie tele di Gianantonio Guardi e
Giandomenico Tiepolo. Guardi l’imposta su di un dettato pittorico conciliante
foga e sicurezza, giostrando su cromie vivacissime in un’arte festosa ed
effervescente anche quando i soggetti trattati siano drammatici: è il caso di Alessandro
Magno vicino al corpo di Dario re di Persia, ove asseconda certa leggiadria di Giambattista Tiepolo, suo
cognato dal 1719 avendone sposato la sorella Maria Cecilia.E anche a lui guarda
il nipote, Giandomenico, con l’Enea,
Anchise e Ascanio, frammento di una tela di più ampie dimensioni,
riprendendo fedelmente un dettaglio di un modelletto ora a Helsinki
(UlkomaisenTaiteen Museo) raffigurante I
greci assaltano Troia in fiamme, parte di un ciclo di almeno tre grandi
dipinti con soggetti tratti dal secondo libro dell’Eneide. In quanto resta del dipinto originale cogliamo l’acme della
vicenda, con Enea a stringere i Penati, sulle spalle il padre Anchise, accanto
il giovane Ascanio. Pur in uno stadio di palese abbozzo l’opera evidenzia la
qualità e maturità ormai raggiunta da Giandomenico, tanto nella stesura
materica quanto nella decisa caratterizzazione di personaggi sviluppati sul
primissimo piano e colti in moti di sorpresa e dolore. L’autonomia dalla
poetica paterna è ormai completata e Giandomenico si appresta a redigere, nella
villa di Zianigo e con i suoi Pulcinella, l’epitaffio finale su di un mondo.
Che non è più soltanto Venezia: è il nostro mondo, quello che i Tiepolo hanno
visto con preoccupazione, ironia e amarezza.
Sala 7 Allegorie e ironie
È
all’aprirsi del Settecento che Angelo Marinali compie il monumentale busto in
marmo di uno dei sette vizi capitali, l’Invidia,
seguendo l’iconografia tramandata da Ovidio e Cesare Ripa. L’esito è
un’immagine di crudo realismo, nello spietato studio fisiognomico e
naturalistico – dal torso rinsecchito alla pelle tirata dai tendini –
sottolineato da un chiaroscuro in piena adesione alle ricerche pittoriche della
scuola secentesca dei tenebrosi. Una scultura utile a rimarcare quanto il secolo
cerchi, nelle allegorie, quella continuità con il Seicento che possa poi
divenire mirabile rottura. Se De Pieri dipinge un’Allegoria dell’inverno fedele visualizzazione dell’iconografia di
Ripa – “Huomo, o donna vecchia, canuta, e grinza, vestita di panni e di pelle,
che stando ad una tavola bene apparecchiata appresso il fuoco, mostri di
mangiare, e scaldarsi” – la Testa di
mercante di Giandomenico Tiepolo sancisce un’altra storia. Innestandosi nel
deflagrato mercato delle cosiddette teste di carattere o “teste di capriccio”.
Immagini dall’approccio subitaneo e immediato, attente alla fisionomica ma
anche al dato caricaturale. Per un tema dalla fortuna lunga un secolo, capace
di narrare come pochi altri l’infinita serie dei caratteri e tipi umani veneziani,
facendosi ritratto psicologico della città da altri effigiata nelle vedute.
Accanto a loro un momento di libera espressione personale di Giambattista
Tiepolo: gli Scherzi di fantasia, un gruppo di acqueforti realizzate fra
il 1735 e il 1740 che l’autore non metterà in circolazione e saranno pubblicate
postume. Si tratta di prove graficamente esemplari, dai tratti rapidi,
improvvisi di un segno ricco di novità timbriche. Incisioni abitate da maghi
con sorrisi fauneschi, sprezzanti negromanti, occhiuti orientali che osservano
rituali cabalistici. E tutti, sempre, guarderanno a terra. È una delle
ossessioni del luminoso pittore di cieli aerei: che ora, nel bianconero di
personale ideazione, osserva sempre ciò che dalla terra, sulla terra, nella
terra, si nasconde, si genera, affiora. Esplora ciò che è nascosto, emergente,
sempre con lo sguardo rivolto in basso, come tutti coloro che rappresenta. Come
se per il pittore della chiarezza e del cielo, abitato da divinità autentiche –
perché solo pensate – ciò che invece è vivo e terragno procurasse incertezza e
inquietudine, insicurezza e timore. Eppure tutto resta sempre luminoso, il
bianco della carta fa rilevare ancor più la trama sottilissima
dell’indecifrabile.Tiepolo costruisce un montaggio di elementi alti della
tradizione classica (bassorilievi, sacrifici pagani, scene pastorali, paesaggi
agresti), del sentire popolare (serpi, gufi, teschi, maghi), del gusto del
tempo (scavi, astrologia, cabala) legati solo dall’occasione della disposizione
grafica. E continuamente rinvia ad un’altra delle sue ripetute ossessioni,
quella del trascorrere del tempo. La tecnica specifica di Tiepolo è lo schizzo,
il medesimo adottato nel disegno: la linea non corre continua e parallela,
accentuandosi nelle ombre, ma si interrompe e riprende, leggera e fine, per poi
improvvisamente fermarsi, frantumarsi in graffi e virgole. Uncini di bulino
sminuzzano la luce e spruzzano scintille argentate. Così Tiepolo finisce per
negare l’ombra, giungendo a suggerire un’orchestrazione di valori cromatici e
accordi musicali, con trapassi di volta in volta morbidi, pastosi, sfuggenti.
Supera il chiaroscuro, crea una dinamica luministica, confonde la tradizione,
apre a nuove sperimentazioni.
Sala 8 Sancire
il mito, Venezia e la sua immagine
Venezia e la
sua immagine, la creazione del mito. L’ottica realista inaugurata di
Carlevarijs, nel Settecento si indirizzerà verso una precisione topografica
assolutamente apprezzata dai visitatori e collezionisti stranieri che esaltano
artisti come Antonio Canal, “il Canaletto” e, in misura minore, Michele
Marieschi. Canaletto, conteso e ammirato per immagini dal colore mobile e
cristallino a rendere lo spazio arioso e profondo, darà alla veduta – quale
esito della sua formazione da scenografo teatrale – la natura della fantasia,
creando una nuova sensibilità prospettica tale da consacrare imperituramente il
mito eterno di Venezia. La verità metereologica dei madreperlacei valori
atmosferici e regole prospettiche di Canaletto si sostanzieranno nella pittura
del nipote Bernardo Bellotto, presente in mostra con alcune delle tele esito
degli anni trascorsi a Dresda alla corte del Principe Elettore di Sassonia
Augusto III. Artista dal carattere saturnino Bellotto sarà osannato nei paesi
di lingua tedesca per la tecnica quasi foto-realistica. E, mentre egli raggiungeva
la fama a Monaco di Baviera, Vienna e Varsavia, Marieschi già guardava oltre:
nella Veduta del Canal Grande con le Rive
del Vin e del Carbon dilatando formidabilmente il grandangolo di
un’inquadratura quasi bruciata dalla luce meridiana che scioglie intonaci e
destruttura architetture, esempio mirabile della sua eccitata fantasia ed estro
scenografici.Sarà poi un allievo di
Marieschi a proseguirne la via di un affrancamento totale da Canaletto: Francesco
Guardi, caratterizzandosi quale l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni,
chiosa il tramonto di Venezia in lirica e malinconica bellezza, mutando la
veduta in fatto morale, tanto da essere le ultime tele la negazione stessa del
genere, destrutturando l’architettura tramite il disfacimento della pennellata
nel colore. Una vena preromantica, quella di Guardi, esplicita nel mondorurale
e domestico, declinato in una poesia semplice e immediata dal colore denso e
chiaroscurato della produzione pastorale di Giuseppe Zais.
Gallerie
d’Italia - Palazzo Leoni Montanari
Sala
degli Stemmi Pietro Longhi e la vita veneziana del
Settecento
Pietro
Longhi nasce a Venezia nel 1701. La sua formazione avviene presso la bottega di
Antonio Balestra, pittore veronese attivo in laguna fino al 1719, e si completa
con un soggiorno di studio a Bologna, dove l’artista è attratto in particolare
dalla novità dei quadri di genere con scene di vita popolare dipinti da
Giuseppe Maria Crespi e da Giuseppe Gambarini. Così, dopo un avvio tradizionale
nel campo della pittura sacra e della decorazione a fresco di tema mitologico,
Longhi preferisce orientarsi con decisione verso i nuovi soggetti della pittura
di genere, che dalla fine del Seicento riscuotevano crescente interesse presso
i collezionisti della penisola ed erano appannaggio quasi esclusivo dei maestri
fiamminghi e olandesi. A Venezia, già nel secondo decennio del Settecento,
Giambattista Piazzetta si era dedicato a una serie di quadri con giovani
contadini, pastorelli e altri soggetti simili che risentono dell’influenza del
bolognese Crespi e che rappresentano il modello assunto da Longhi per i suoi primi
dipinti di questo tipo, come dimostrano bene i due Pastorelli esposti in questa sala. A partire dal 1740 circa, il
pittore affronta in misura sempre crescente nuove tematiche, del tutto
originali nel panorama veneto di quegli anni, che diventano il tratto
distintivo della sua attività. Nascono i quadri dedicati alla vita veneziana
dei suoi giorni, osservata nelle calli e negli interni dei palazzi nobiliari,
negli svaghi del popolo minuto e in quelli del patriziato, restituiti in tele
di piccolo formato dai colori vivaci e dalla stesura pittorica raffinata, di
impronta rococò. Pietro Longhi diviene così una sorta di cronista del suo
tempo, mantenendo, anche nelle sue scene a scala ridotta, una schiettezza di
sguardo e un interesse per il mondo che lo circonda che lo rendono un
protagonista della pittura europea dell’età dei Lumi, negli anni in cui William
Hogarth a Londra dipinge le sue serie di quadri di satira sociale (Il matrimonio alla moda; La carriera di un libertino) e si
afferma il genere illuminista del ritratto di gruppo informale. Una tipologia
pittorica cui Longhi sembra accostarsi con lo splendido Ritratto di famiglia (I precettori di casa Venier) qui esposto. I
suoi quadri hanno costantemente destato l’interesse del collezionismo come
testimonianze della vita quotidiana nell’ultimo secolo della Serenissima. Con
questo spirito ‘documentario’ Giuseppe Salom nel XIX secolo raccolse in Palazzo
Corner Spinelli a Venezia le quattordici tele esposte in questa sala, poi
acquisite nel 1981 dalla Banca Cattolica del Veneto, quindi confluite nel
patrimonio artistico di Intesa Sanpaolo. Una collezione che per ampiezza si
affianca alle raccolte di dipinti longhiani dei musei veneziani di Ca’
Rezzonico e della Pinacoteca QueriniStampalia, documentando l’ampia gamma di
temi affrontati dall’autore e il vasto fenomeno di imitazione di cui la sua
pittura fu oggetto fin dal Settecento.
La fortuna dei modelli di Pietro Longhi
La fortuna dei quadri di Pietro Longhi
presso gli aristocratici veneziani e presso intellettuali influenti come Carlo
Goldoni e Gaspare Gozzi favorì fin dalla metà del Settecento la fioritura di
numerosi imitatori e seguaci della maniera del pittore. Gli studi critici
moderni hanno potuto individuare dei gruppi omogenei di dipinti ‘alla Longhi’, assegnandoli
a diversi artisti ancora senza identità precisa, conosciuti attraverso nomi
convenzionali utili a definirne la loro personalità estetica e artistica; tra
questi emergono il ‘Maestro dei riflessi’, riconoscibile per la tecnica
pittorica raffinata e il cromatismo vivace, e il prolifico ‘Maestro del
ridotto’, al quale possono essere associate alcune scene di interni veneziani
affollati di personaggi dalle fisionomie peculiarmente allungate. Carlo Goldoni
nel poemetto Il burchiello (1756)
ricorda Andrea Pastò come “buon pittore, specialmente in picciole figure alla
maniera del celebre Pietro Longhi”, offrendo una testimonianza in presa diretta
della rielaborazione di soggetti e invenzioni iconografiche longhiane operata
da seguaci, tra i quali vanno annoverati anche Giuseppe De Gobbis e Lorenzo
Gramiccia. In più di un’occasione, per dipingere le loro opere, gli imitatori
di Longhi si avvalgono delle stampe tratte dalle tele del celebre pittore
veneziano. È il caso della coppia di quadri qui esposti raffiguranti Il risveglio della dama e La dichiarazione, entrambi derivati da
incisioni di metà Settecento che riproducono originali di Longhi andati
perduti. Alla mano dello stesso anonimo artista, per cui è anche stato proposto
il nome di Johann Heinrich Tischbein, un tedesco attivo in laguna alla metà del
XVIII secolo, si possono assegnare La
bottega del caffè e La lezione di
musica, non copie dirette di prototipi longhiani ma invenzioni ex novo che cercano di imitarne lo
spirito. A un altro pittore affascinato dalle ‘mascherate’ di Pietro Longhi si
deve, invece, la tela con Il ridotto di
palazzo Dandolo a Venezia, ambientata in una sala della casa di gioco
pubblica di Venezia, che vediamo raffigurata anche in un altro quadro di
analogo soggetto qui esposto. Tra gli artisti affascinati dai modelli longhiani
emerge per il suo talento l’anonimo pittore che raffigura Il rinoceronte, ‘esibito’ a Venezia per il carnevale del 1751, in
una tela dalla cromia vivace e dalla spiccata intonazione rococò, esposta in questa
stanza. Si tratta di una rielaborazione molto originale del quadro dedicato da
Longhi al medesimo soggetto (Venezia, Ca’ Rezzonico).
Sala dei Fauni Il vedutismo: Venezia e altre città della
Terraferma
La nascita del vedutismo moderno a
Venezia risale idealmente alla serie di vedute della città eseguite da Gaspar
van Wittel intorno al 1697. Il genere si afferma rapidamente in laguna, potendo
contare soprattutto sul folto pubblico di acquirenti rappresentato dagli
stranieri di passaggio per il Grand Tour,
il viaggio di formazione compiuto dai rampolli delle aristocrazie continentali
che aveva come tappe irrinunciabili le principali città d’arte italiane. Tra i
primi a raccogliere la sfida gettata dal pittore olandese e rilanciata dai
numerosi seguaci della sua maniera, tra cui il connazionale HendrikFrans van
Lint, vi fu Luca Carlevarijs che, dopo aver esordito come paesaggista, si
specializza nella pittura di veduta. Al 1703 risale la pubblicazione di una raccolta
di stampe rappresentanti gli edifici più importanti di Venezia, mentre le prime
raffigurazioni su tela della città sono di poco successive. Carlevarijs,
inoltre, estese il suo sguardo anche alle località della terraferma veneta,
come la natia Udine e Verona. Senza tralasciare la sua indimenticabile cronaca
figurata dell’ingresso degli oratori veneziani in Palazzo Ducale a Milano nel
1711. Canaletto è il più celebre tra i vedutisti e i suoi scorci di
Venezia hanno contribuito a consacrare il mito della Serenissima. Formatosi
inizialmente come scenografo, ben presto rivolse le sue energie al genere della
veduta, conquistandosi rapidamente una straordinaria notorietà e lavorando per
i più importanti mecenati dell’epoca. Nonostante le rigorose costruzioni
spaziali, i suoi dipinti non sono soltanto una registrazione passiva della
realtà topografica ma, attraverso un’osservazione attenta della luce, egli ha
saputo restituire un’immagine imperturbabile ed eterna della Venezia
settecentesca. Il successo di Canaletto, dalla metà degli anni Trenta convinse
numerosi artisti a specializzarsi nel vedutismo. Tra questi emergono Michele
Marieschi e il suo allievo ed erede, Francesco Albotto, attivi per un mercato
in continua crescita. La vicenda del vedutismo veneziano si chiude con
Francesco Guardi, la cui pittura, con il suo cromatismo eccitato, il segno
guizzante, i cieli atmosferici di toni incupiti, sembra quasi un controcanto
rispetto alla lucentezza smaltata delle vedute di Canaletto. Affrancandosi
progressivamente dai modelli del grande Antonio Canal, Guardi giunge negli
ultimi anni, attraverso il disfacimento delle forme nel colore, quasi a negare
le radici architettoniche e prospettiche del genere. Le sue suggestive
raffigurazioni di Venezia sono state per questo motivo interpretate come una
sorta di malinconica eco al tramonto della Serenissima Repubblica, che cadeva
per mano di Napoleone, pochi anni dopo la morte dell’artista. -
Veduta
e capriccio nel Settecento
Nella Roma di fine Cinquecento, crocevia
degli artisti di tutta Europa, si assiste alla nascita del paesaggio come forma
autonoma e non più soltanto come complemento o sfondo dei dipinti di soggetto
sacro o profano. La pittura di paesaggio, la cui fortuna si consolida in gran
parte del continente nel corso del Seicento, presuppone sempre un confronto con
la realtà naturale, ma essa si sviluppa in diverse accezioni, tra cui la
veduta, più attenta all’osservazione della topografia urbana o extraurbana, e
il capriccio, fantastica rielaborazione degli elementi naturalistici e
architettonici. Lo studio intrapreso sui monumenti di Roma e l’attenzione
rivolta dai pittori nordici alla realtà quotidiana, sia sotto forma di scene di
costume popolare, sia come raffigurazione dei luoghi più famosi della città eterna,
sono all’origine della veduta e trovano un primo momento di sintesi nella
figura di Gaspar van Wittel, straordinario interprete della luce vera del
cielo. Grazie alla serie di vedute veneziane eseguite dall’artista olandese
intorno al 1697 il nuovo genere si afferma definitivamente anche in laguna,
dove trova un terreno fertile nella tradizione veneziana di pittura urbana
presente negli sfondi dei grandi teleri dipinti per le confraternite laiche,
come il ciclo eseguito a fine Quattrocento per la Scuola di San Giovanni
Evangelista (Venezia, Gallerie dell’Accademia), al quale contribuirono, tra gli
altri, Vittore Carpaccio e Gentile Bellini. La restituzione esatta delle
architetture, affidata alle competenze prospettiche e scenografiche degli
artisti e all’utilizzo di uno strumento come la camera ottica, accanto alla
verità meteorologica espressa nei dipinti, sono gli elementi che concorrono ad
alimentare l’idea di veduta come riproduzione fedele e oggettiva di uno scorcio
cittadino, determinando la fortuna del vedutismo a Venezia. Fin dall’inizio del
Settecento, in stretta contiguità con la veduta topograficamente esatta e a
opera degli stessi artisti che passano con disinvoltura dall’uno all’altro
genere, si sviluppa la veduta ideata o capriccio. Questo termine non era nuovo,
ma dall’iniziale accezione negativa, esso assunse presto in ambito artistico
una valutazione positiva e fu posto in relazione con il mondo dell’invenzione,
del fantastico, dell’irrazionale. Nella pittura veneziana tra la fine del Seicento
e l’inizio del Settecento il capriccio si configura come un genere vero e
proprio, ossia come l’arte di comporre il paesaggio attraverso la libera
combinazione di elementi architettonici reali o fantastici, di rovine
dell’antichità rielaborate, di figure e macchiette, secondo una varietà di
declinazioni che vanno dal grottesco al visionario, dal pittoresco
all’elegiaco.
Sala dell’Eneide Francesco
Zuccarelli, il mito di Palladio in una veduta panoramica di Vicenza
Noto prevalentemente per gli squisiti paesaggi
di gusto arcadico, ambientati in una campagna fuori dal tempo e popolata di
pastori e leggiadre contadine, come testimonia la tela con il Ratto d’Europa esposta in questa sala,
Francesco Zuccarelli si conquistò i favori dei più importanti collezionisti
europei, soggiornando per diverso tempo a Londra e in Gran Bretagna. Il suo
impegno nell'ambito della cosiddetta 'veduta ideata' o del 'capriccio
architettonico' è invece abbastanza circoscritto e rimane in ogni caso, come
nella Veduta ideale di Vicenza con
celebrazione allegorica di Andrea Palladio, fortemente segnato dalla sua
attività di paesista. La monumentale tela raffigura una veduta della città
berica e celebra uno dei suoi cittadini più illustri, Andrea Palladio. Il
dipinto nasce nell'ambito del revival palladiano che intorno alla metà del
Settecento ebbe per promotori, tra gli altri, il console Joseph Smith,
committente di Canaletto e dello stesso Zuccarelli, e Richard Boyle, III conte
di Burlington. Il celebre architetto è rappresentato seduto, mentre regge con
la mano destra un volume raffigurante la pianta del Teatro Olimpico.
Riallacciando un dialogo con i proprietari del palazzo in cui il dipinto è oggi
conservato, tale disegno rimanda idealmente a un’illustrazione pubblicata nel
1733 da Giovanni Montenari, nel suo saggio Del
Teatro Olimpico di Andrea Palladio in Vicenza. Lo stesso libro, in
apertura, contiene l'effigie dell'architetto ricavata da un ritratto - ritenuto
allora autentico - custodito nel Settecento in casa Capra (la famosa
''Rotonda'' progettata dallo stesso Palladio). Palladio è intento a conversare
amabilmente con due grandi fautori della sua fortuna internazionale:
l'architetto Inigo Jones e, probabilmente, Thomas Howard, XXI conte di Arundel,
i protagonisti, all'inizio del Seicento, della nascita in Inghilterra del culto
palladiano. Vicenza e i suoi dintorni, che fanno da palcoscenico a questo
incontro ideale e anacronistico, sono immortalati in una veduta che non punta
alla correttezza topografica, ma a evocare l’immagine della città attraverso
alcuni luoghi o monumenti significativi: il fiume Retrone, l'Arco trionfale del
Campo Marzio, il Torrione di Porta Castello, il Duomo, la Basilica Palladiana,
la Torre Bissara e la distrutta Porta Lupia. Notevolmente spostata rispetto
alla ubicazione reale, sullo sfondo a ridosso delle montagne si riconosce la Rotonda,
un prototipo di villa che fece scuola in Europa, particolarmente in area
anglosassone.
Antica
Quadreria La Caduta
degli angeli ribelli di Agostino Fasolato
Il gruppo
scultoreo raffigura il combattimento tra l’esercito del bene e quello del male,
comandati l’uno dall’arcangelo Michele e l’altro da Satana, così come
raccontato nell’Apocalisse di
Giovanni. Al vertice della piramide sta Michele, con la spada sguainata e lo
scudo legato al polso con inciso QVIS UT DEVS. Di fronte a lui, con i piedi
appoggiati sulla base della composizione, Satana è voltato di schiena: tiene
nella destra il forcone a due punte e con la sinistra punta l’indice verso
l’alto in direzione del suo avversario. Tra i due protagonisti del
combattimento è rappresentata la moltitudine degli angeli ribelli scacciati dal
paradiso, e quindi divenuti essi stessi diavoli, tra i quali si muovono altre
mostruose creature demoniache in forma di serpenti e draghi. La più antica
segnalazione dell’opera si deve a Giovan Battista Rossetti che, nella sua Descrizione di Padova del 1765, la
citava tra le maggiori attrazioni della città: il visitatore non doveva infatti
mancare di ammirare La caduta degli
angeliribelli di “AgostinFasolatoScultor Padovano…lavoro per dir vero
stupendo, non tentato né pure dall’antica Grecia”. Il gruppo “cavato da un
pezzo di marmo di Carrara di sessanta figure a piramide” si conservava allora
nel palazzo dei conti Trento, collocato in uno dei saloni di rappresentanza
affrescato da un discepolo e collaboratore di Giambattista Tiepolo, Francesco
Zugno. Secondo le fonti il marmo era stato commissionato dal conte Marc’Antonio
Trento, balì del Sovrano Militare Ordine di Malta nonché socio di varie
accademie patavine. Nel 1805 Francesco e Alessandro Papafava dei Carraresi acquistavano
il palazzo dalla loro prozia Faustina Papafava, vedova di Decio Trento, ultimo
discendente di questa famiglia, e con esso anche La caduta di Fasolato. Nel 1972 l’opera passava dai discendenti
Papafava alle collezioni della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e quindi,
nel 2003, a quelle di Sanpaolo IMI, oggi Intesa Sanpaolo. La prodigiosa
maestria tecnica esibita nel gruppo continuerà a rimanere fonte di meraviglia
per tutto l’Ottocento, ben al di là dell’ambito delle glorie artistiche locali.
Il filosofo e teologo Antonio Rosmini ne scriveva a più riprese nella sua
corrispondenza privata; Leopoldo Cicognara gli dedicava ampio spazio nella sua Storia della scultura chiedendosi “con
quali ingegnosi e ricurvi ferri si giungesse per ogni verso dallo scultore a
traforare e condurre quel marmo..”; Herman Melville, l’autore di Moby Dick in visita a Padova nel 1857,
l’anno seguente ne faceva l’oggetto di una conferenza a Cincinnati. Alla fama
del Lacaduta, non corrisponde
tuttavia quella del suo autore, del quale oggi si sa molto poco. Le sue
composizioni hanno una stretta relazione con quelle del Bertos, artista di
Doloche deve essere considerato il suo maestro. Bertos si era specializzato in
sculture in marmo e bronzo analogamente composte da più figure collocate a
piramide e collezionate dall’aristocrazia veneta dell’epoca. Con La caduta degli angeli ribelliFasolato,
probabilmente, portava alle estreme conseguenze il genere di opere rese famose
dal maestro e, evidentemente, aveva voluto superarlo progettando un gruppo di
sessanta figure laddove quelli di Bertos non avevano mai superato le dodici.
SCHEDA
TECNICA
"Il
trionfo del colore.Da Tiepolo a Canaletto e Guardi Vicenza e i capolavori dal
Museo Pushkin di Mosca"; a cura di
Vittoria Markova e Stefano Zuffi. Museo Civico di Palazzo Chiericati e Gallerie
d'Italia - Palazzo Leoni Montanari; prodotta e organizzata da MondoMostre. Catalogo Skira Editore. Dal 23
novembre 2018 al 10 marzo 2019. Orari: Museo Civico di Palazzo Chiericati: dal
martedì alla domenica, 09.00-19.00. lunedì chiuso. Gallerie d’Italia – Palazzo
Leoni Montanari: dal martedì alla domenica, 10.00 - 18.00. lunedì chiuso;
ultimo Ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietto unico per le due sedi espositive: intero € 14,00, ridotto
€ 12,00. Possessori di biglietto d’ingresso di qualsiasi tipologia del Museo di
Palazzo Chiericati, under 18, studenti universitari fino a 25 anni muniti di
tessera universitaria in corso di validità, persone con disabilità, possessori
di biglietto Regionale Trenitalia e gruppi e convenzioni. Gruppi € 12,00;
ridotto speciale € 10,00; 2x1 Trenitalia € 7,00, Possessori di biglietto Frecce Trenitalia (vincolato all’acquisto di due
biglietti), scuole € 5,00, open € 16,00; gratuito: bambini da 0 a 5
anni, guide turistiche, giornalisti accreditati, accompagnatori di persone con
disabilità, tesserati ICOM e gratuità di legge, audioguida€ 5,00, microfonaggio (gruppi € 30,00, scuole € 15,00). Presentando
il biglietto della mostra sarà possibile usufruire di riduzioni sul biglietto
per: Villa Valmarana ai Nani; Villa Zileri; Villa Cordellina. Biglietto unico MUSEUM CARD: il biglietto
mostra da diritto ad una riduzione sui biglietti del circuito museale cittadino
(Teatro Olimpico, Collezione permanente del Museo Civico di Palazzo Chiericati,
Museo Naturalistico Archeologico, Chiesa di Santa Corona, Museo del
Risorgimento e della Resistenza, Gallerie d’Italia-Palazzo Leoni Montanari,
Museo Diocesano, Palladio Museum, Museo del Gioiello). Per info Ufficio IAT
Piazza Matteotti, Vicenza tel. 0444 - 964380; info e prenotazioni: www.vivaticket.it