OSVALDO LICINI A VENEZIA
Alla XXIX Biennale di
Venezia del 1958 l’artista marchigiano Osvaldo Licini (1894 – 1958) fu
insignito del Gran Premio per la pittura, un dovuto omaggio a una delle personalità
più originali quanto inafferrabili del panorama artistico italiano della prima
metà del XX secolo. A 60 anni da quel prestigioso riconoscimento e dalla sua
scomparsa, la Collezione Peggy Guggenheim ricorda il grande maestro con
l’attesissima retrospettiva "OSVALDO LICINI. Che un vento di follia
totale mi sollevi", a cura di Luca Massimo Barbero. Undici sale
espositive, oltre cento opere, ripercorrono il dirompente quanto tormentato
percorso artistico di questo autore, la cui carriera fu caratterizzata da
momenti di crisi e cambiamenti stilistici apparentemente repentini. Licini mise
al centro della sua ricerca artistica la pittura stessa, con la conseguente
incessante e sofferta sperimentazione formale espressa nelle sue opere, mai
veramente ultimate e costantemente ripensate. Con questa retrospettiva il
curatore Luca Massimo Barbero intende mostrare la sostanziale coerenza di
questo percorso. Quelle che all’apparenza sembrano delle cesure si rivelano
infatti tappe di un’esperienza singolare che risalta all’interno della storia
dell’arte del Novecento per risultati di assoluto lirismo e poeticità.
Formatosi inizialmente in una Bologna ricca di fermenti artistici non solo per
la presenza di altri giovani come Giorgio Morandi, ma anche degli artisti futuristi,
Licini non si accontenta tuttavia del panorama italiano. Grazie a ripetuti
soggiorni a Parigi tra il 1917 e il 1925, diviene ben presto una delle figure
italiane più consapevoli degli sviluppi internazionali dell’arte pittorica.
Forse anche per questo egli ha progressivamente assunto e difeso una posizione
di indipendenza all’interno del panorama artistico italiano, senza mai
veramente aderire a movimenti o gruppi, un’indipendenza ribadita anche dalla
scelta di stabilirsi nell’isolato borgo natio di Monte Vidon Corrado. Qui vive
e respira i paesaggi marchigiani, quei colli già resi celebri dai versi di
Giacomo Leopardi, da cui non riesce a staccarsi, soprattutto pittoricamente,
tanto da farne il soggetto della sua prima fase figurativa degli anni ’20, a
cui appartengono opere come Paesaggio
con l’uomo (Montefalcone), del 1926 e Paesaggio marchigiano (Il trogolo), del 1928. E sono
queste stesse vedute a fare da sfondo con la loro sinuosa linea dell’orizzonte
anche alla successiva transizione dal realismo all’astrattismo dei primi anni
‘30, come si può già notare in Paesaggio Fantastico (Il Capro) del 1927.
Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro 701 30123 Venezia (39) 041 2405 415; http://www.guggenheim-venice.it Nel
tentativo di evadere da un’Italia artisticamente dominata sempre più da un
realismo supportato dal regime fascista, Licini si volge alla non figurazione,
inserendosi nel composito clima culturale milanese degli anni '30, centro
propulsore dell’astrattismo italiano e del Razionalismo. Inevitabile risulta il
coinvolgimento nelle attività della Galleria "Il Milione". Pur
esponendovi nel 1935, Licini mantiene tuttavia una posizione personale, assieme
ad artisti come Fausto Melotti e Lucio Fontana, le cui sperimentazioni
scultoree del 1934-35 sono incluse in mostra. Il linguaggio astratto di Licini
è atipico, attento alla geometria, ma anche all’intensità cromatica che entra
con forza nella struttura compositiva, evitando sempre campiture piatte e compatte
a favore di superfici pittoricamente sensibili e vibranti. È una geometria che
è diventata “sentimento”, intrisa di lirismo, evidente in opere come Castello
in aria, del 1933-36, o Obelisco, del 1932. Una posizione così
particolare non poteva che attrarre un collezionismo altrettanto sofisticato e
l’interesse di molti intellettuali italiani. È proprio in “bilico”, titolo e
soggetto di varie opere di Licini degli anni ’30, tra i due poli di astrazione
e figurazione che si giocano la sua carriera e i grandi capolavori della
maturità dedicati ai temi dell’Olandese volante, dell’Amalassunta e dell’Angelo
ribelle. In queste opere iniziano ad apparire dei ‘personaggi’, in principio
semplicemente lettere o simboli dal significato misterioso. Le opere più iconiche
di Licini, presentate in gruppo alla Biennale di Venezia del 1950, sono
tuttavia quelle dedicate al soggetto di Amalassunta, secondo le parole
dell’artista ‘la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità,
personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco’. L’ampia
selezione di quadri di Amalassunta offerta in mostra propone al visitatore le
molteplici sfaccettature della personalità di Licini, dal lato lirico e
contemplativo a quello più ironico e dissacrante. Nelle opere realizzate dal
finire degli anni ’40 in poi convergono tematiche, stilemi e il mai risolto
rovello della pittura, che fanno emergere Licini come un grande protagonista
del modernismo italiano e internazionale, confermato dal premio conferitogli
pochi mesi prima della morte alla Biennale di Venezia del 1958. Una fotografia
scattata in quell’occasione ritrae Peggy Guggenheim in visita alla sala
dedicata a Licini, attestando il sicuro interesse della collezionista nei
confronti dell’opera dell’artista. La mostra è accompagnata da un’esaustiva
pubblicazione illustrata, edita da Marsilio Editore in italiano e inglese, con
contributi di Luca Massimo Barbero, Federica Pirani, Sileno Salvagnini, Chiara
Mari. Il programma espositivo della Collezione Peggy Guggenheim è sostenuto
dagli Institutional Patrons – EFG e Lavazza, da Guggenheim Intrapresæ e dal
Comitato consultivo del museo. I progetti educativi correlati all’esposizione
sono realizzati grazie alla Fondazione Araldi Guinetti, Vaduz. Si ringrazia
Art&Dossier. Tutti i giorni alle 15.30 vengono offerte visite guidate
gratuite alla mostra, previo acquisto del biglietto d’ingresso al museo. “Chi
cerca suole mai trovar certezza”. All’insegna di questo suo aforisma si
sviluppa l’arte di Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado, 1894–1958) lungo un
percorso tormentato, caratterizzato da momenti di crisi e cambiamenti
stilistici e costellato di opere mai veramente ultimate e costantemente
ripensate. Per l’artista marchigiano la tela rimane sempre un campo di
battaglia, uno spazio di sperimentazione sofferta. Su base cronologica questa
retrospettiva intende mostrare la sostanziale coerenza di questo percorso, una
coerenza determinata dalla questione fondante dell’opera di Licini che è la
ricerca sulla pittura stessa. Alter ego insofferente e irriverente dell’amico
di gioventù Giorgio Morandi, Licini raggiunge e difende una posizione
d’indipendenza nel panorama artistico italiano, senza mai veramente aderire a
movimenti o gruppi, un’indipendenza ribadita anche dalla scelta di vivere isolato
nel borgo natio di Monte Vidon Corrado. Questa posizione non va tuttavia
scambiata per provincialismo. Fra i primi a recarsi a Parigi, soggiornandovi
ripetutamente tra 1917 e 1925, Licini è tra gli artisti italiani più
consapevoli degli sviluppi internazionali. Il percorso espositivo ripercorre la
vicenda creativa di Licini, dalle rappresentazioni del paesaggio collinare
marchigiano – quei colli già resi celebri dai versi di Giacomo Leopardi –
all’approdo all’astrazione nel corso degli anni ’30. La speciale attenzione qui
data alla pittura di paesaggio e in generale alla prima fase figurativa aiuta a
constatarne la sperimentalità, posta a confronto con opere di altri maestri
italiani, e la continuità con gli sviluppi successivi. Nel clima opprimente del
“ritorno all’ordine” in Italia, Licini trova un’alternativa rivolgendosi alla
non figurazione. È una geometria priva di risolutezza e risoluzione, che si
distacca da altri artisti d’avanguardia con risultati di accentuato lirismo e
poeticità, qui posti in dialogo con quelli di altre due personalità con cui
condivide questa scelta, Lucio Fontana e Fausto Melotti. Una posizione così
particolare non può che attrarre un collezionismo altrettanto sofisticato e
l’interesse degli intellettuali italiani. È proprio in “bilico” (titolo e
soggetto di varie opere di Licini) tra i due poli di astrazione e figurazione
che si gioca sia la carriera sia i grandi capolavori della maturità, dedicati
ai temi dell’Olandese volante, dell’Amalassunta e dell’Angelo
ribelle. È in particolare Amalassunta, la luna, a incarnare col suo mistero
il lato contemplativo, ma anche quello ironico e dissacrante, della personalità
di Licini. In queste opere finali convergono tematiche, stilemi e il mai
risolto rovello della pittura, che fanno emergere Licini come un grande
protagonista del modernismo italiano e internazionale. Non a caso alla Biennale
di Venezia del 1958, dove a Licini è dedicata una retrospettiva di oltre
cinquanta opere, gli viene assegnato il Gran Premio internazionale di pittura,
mai vinto prima di allora da un artista italiano. Dopo l’infanzia trascorsa
nella campagna marchigiana e in assenza dei genitori, emigrati a Parigi,
Osvaldo Licini si trasferisce a Bologna per frequentare l’Accademia di Belle
Arti dal 1908 al 1914. È negli anni trascorsi nel capoluogo emiliano che fa
importanti conoscenze e realizza ed espone le prime opere. Stringe amicizia con
Giorgio Morandi, le cui Bagnanti (1915), esposte in questa sala,
intendono mettere in luce la folgorante scoperta della pittura francese
contemporanea, da maestri ormai riconosciuti come Paul Cézanne ad artisti
viventi quali André Derain, come dimostrano anche opere di Licini, ad esempio Ballerine
(1917). Risale a questi anni anche l’interesse per il Futurismo. L’adesione
al movimento è principalmente letteraria, espressa nelle prose intrise di un
“cinismo brutalissimo” intitolate Racconti di Bruto, che Licini propone
per la pubblicazione sulla rivista futurista “Lacerba”. Dal punto di vista
pittorico, l’occasione per collaborare è offerta da una mostra collettiva della
durata di soli due giorni (21–22 marzo 1914) allestita all’Hotel Baglioni di
Bologna, e definita la “mostra dei secessionisti” per la generale tendenza
antiaccademica e irriverente. Licini espone Autoritratto (1913), assieme
a opere dell’amico Morandi, di Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Filippo Tommaso
Marinetti e Luigi Russolo. In chiave di macchinismo futurista possono essere
lette le opere che Licini a posteriori definisce Episodi di guerra, immagini
stilizzate di soldati e scene di guerra. Nel 1915 Licini è chiamato alle armi e
congedato dopo pochi mesi per una grave ferita, cui segue un periodo di
convalescenza. Al limite del decennio si collocano invece gli Arcangeli,
di datazione piuttosto complessa se si considerano i rifacimenti e le aggiunte
posteriori al 1919. È una nuova pittura, ben lontana dagli esiti bolognesi del
1913, che per la prima volta presenta in tutta la sua visionarietà il
fondamentale tema dell’angelo. Dopo l’infanzia trascorsa nella campagna
marchigiana e in assenza dei genitori, emigrati a Parigi, Osvaldo Licini si
trasferisce a Bologna per frequentare l’Accademia di Belle Arti dal 1908 al
1914. È negli anni trascorsi nel capoluogo emiliano che fa importanti
conoscenze e realizza ed espone le prime opere. Stringe amicizia con Giorgio
Morandi, le cui Bagnanti (1915), esposte in questa sala, intendono
mettere in luce la folgorante scoperta della pittura francese contemporanea, da
maestri ormai riconosciuti come Paul Cézanne ad artisti viventi quali André
Derain, come dimostrano anche opere di Licini, ad esempio Ballerine (1917).
Risale a questi anni anche l’interesse per il Futurismo. L’adesione al
movimento è principalmente letteraria, espressa nelle prose intrise di un “cinismo
brutalissimo” intitolate Racconti di Bruto, che Licini propone per la
pubblicazione sulla rivista futurista “Lacerba”. Dal punto di vista pittorico,
l’occasione per collaborare è offerta da una mostra collettiva della durata di
soli due giorni (21–22 marzo 1914) allestita all’Hotel Baglioni di Bologna, e
definita la “mostra dei secessionisti” per la generale tendenza antiaccademica
e irriverente. Licini espone Autoritratto (1913), assieme a opere
dell’amico Morandi, di Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti
e Luigi Russolo. In chiave di macchinismo futurista possono essere lette le
opere che Licini a posteriori definisce Episodi di guerra, immagini
stilizzate di soldati e scene di guerra. Nel 1915 Licini è chiamato alle armi e
congedato dopo pochi mesi per una grave ferita, cui segue un periodo di
convalescenza. Al limite del decennio si collocano invece gli Arcangeli,
di datazione piuttosto complessa se si considerano i rifacimenti e le aggiunte
posteriori al 1919. È una nuova pittura, ben lontana dagli esiti bolognesi del
1913, che per la prima volta presenta in tutta la sua visionarietà il
fondamentale tema dell’angelo. scarnificata dai ripensamenti, con un aspetto
che rifugge il piacere della pittura e il risultato estetizzante. Soggetto
trasversale all’opera di Osvaldo Licini è il territorio marchigiano e il suo
paesaggio collinare, con tutti i connotati poetici ad esso già associati nei
più celebri Canti di Giacomo Leopardi. Tema profondamente italiano,
affrontato in maniera più tradizionale da molti artisti dell’epoca, da Carlo
Carrà a Giorgio Morandi, la pittura di paesaggio che Licini realizza nella
seconda metà degli anni ’20 comprende opere di attenta ricerca formale e
compositiva, che parlano un linguaggio visivo di respiro internazionale. I
dipinti in questa sala – i ben noti “dipinti di crinale”, come Paesaggio
Falerone (1925), Paesaggio marchigiano (1926), Paesaggio n. 2 (1926),
caratterizzati da un segno obliquo e trasversale che attraversa da un lato
all’altro l’intera composizione – sono realizzati tutti nella “profondissima
quiete” di Monte Vidon Corrado, dove ormai Licini si è stabilito
definitivamente, riconoscendo la sua terra come “personaggio” fondamentale
della sua opera. La rappresentazione del paesaggio diventa campo privilegiato
di sperimentazione tecnica: mosso, insicuro, pastoso, nel paesaggio Licini
forza l’uso della linea e della materia, che si scontrano in un’impossibile
risoluzione armonica, finendo per dare risultati affatto pittoreschi. In Licini
la Natura è sempre presente, sia nel dato tangibile del reale “ritratto” sia
nell’evocazione e trasfigurazione dell’oggetto rappresentato. Così avviene in Paesaggio
fantastico (Il capro), 1927, dove la propensione naturalistica è solo un
pretesto, forse un bisogno innato in Licini di trasfigurare attraverso l’uso
della linea e la semplificazione formale sia l’orizzonte collinare sia
l’animale, che diventa una sorta di presenza immanente. È il tema leopardiano
del vedere oltre quanto percepibile dai sensi per lasciar spaziare il pensiero,
attività che in Licini genera un’inebriante vertigine. È nel corso degli anni
’30 che le tendenze astratte inerenti alla ricerca figurativa di Osvaldo Licini
trovano completa espressione, man mano che la distanza dall’arte promossa dal
Fascismo si accresce. A partire dal 1932 Licini dimostra un interesse crescente
per l’ambiente che gravita attorno alla Galleria del Milione, gestita a Milano
dai fratelli Gino e Peppino Ghiringhelli e progressivamente divenuta punto di
riferimento per la difesa e la promozione dell’arte non figurativa in Italia.
In occasione della sua partecipazione alla II Quadriennale di Roma nel febbraio
1935, Licini espone Castello in aria (1933–36), Il bilico (1934)
e Stratosfera (1934), da lui descritti come tre quadri “irrazionali”,
“quadri dipinti a 500.000 metri d’altezza, nella zona siderale, che nessun
Piccard potrà mai profanare. . . . W la pittura irrazionale!”. Licini conosce
artisti del gruppo del Milione, come Oreste Bogliardi, Mauro Reggiani e Atanasio
Soldati, pur evidenziando fin da subito la propria posizione atipica. Per la
sua personale alla Galleria del Milione nell’aprile 1935 Licini redige una nota
dichiarazione di poetica che riassume con efficacia il suo percorso degli anni
precedenti, spiegando anche i grandi problemi di datazione delle opere di
questo periodo e la loro scarsità: “Fino a quattro anni fa ho fatto tutto
quello che ho potuto per fare della buona pittura dipingendo dal vero. Poi ho
cominciato a dubitare. . . . E mi sono convinto che facevo . . . della pittura
in ritardo, superatissima, fuori del tempo e contraria alla sua vera natura,
che non è: imitazione. La pittura è l’arte dei colori e delle forme,
liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di creazione, ed è, contrariamente
a quello che è l’architettura un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e
immaginazione, cioè poesia. Allora ho preso 200 buoni quadri che ho dipinti dal
vero e li ho portati in soffitta”. La mostra di Licini è preceduta, in gennaio,
da una personale di Lucio Fontana e seguita da quella di Fausto Melotti. I tre
artisti si delineano presto come eccezioni all’interno del gruppo. Le sculture
astratte di Fontana, che utilizzano il ferro, il cemento, il gesso colorato,
rappresentano un primo tentativo di forzare i limiti della scultura rendendola
puro segno trasposto nella terza dimensione, tentativo della linea di occupare
lo spazio. È una linea che, come quella di Licini, oscilla tra l’organico e il
geometrico. Musicista di formazione, Melotti crea una scultura astratta che si
caratterizza per la purezza e l’espressione di ritmi di chiara ascendenza
musicale. “L’arte è stato d’animo angelico. Non la modellazione ha importanza,
ma la modulazione”, dichiara Melotti. La sua è una scultura basata sulle leggi
dell’armonia musicale, che giunge a risultati di una classicità molto diversa
da quella perseguita dalla scultura coeva, più vicina al regime fascista.
Licini dimostra di rispondere pittoricamente a questo tipo di ritmicità. La
pittura di Osvaldo Licini, anche nell’apparente astrattezza, riesce sempre a
combinare l’aspetto lirico-poetico con un appiglio concreto, spesso con
risultati palesemente ironici. Anche questo segna la distanza di Licini dal
teorico dell’astrazione in Italia, Carlo Belli, e dalle idee espresse nel suo
testo Kn, pubblicato sotto gli auspici del Milione nel 1935. Per Belli
l’arte deve avere un valore universale ed essere slegata del tutto
dall’individuo che la produce. Questa constatazione lo porta ad aspirare a “una
mostra di opere che non portino titolo, senza firma degli autori, senza data e
senza nessun riferimento umano, distinte una dall’altra con semplici
indicazioni algebriche k, k1, k2 … kn”. Assaggiare (1934–36) e Addentare
(1935–36), esposte in questa sala, dimostrano invece quanto siano
importanti per Licini i titoli, per orientare la lettura delle forme astratte
in senso figurativo e quasi parodico. Nel 1937 l’artista descrive la pittura
come “l’arte dei colori e dei segni. I segni esprimono la forza, la volontà, l’idea.
I colori la magia. Abbiamo detto segni e non sogni”. Intorno agli stessi anni
Licini inizia il ciclo delle Archipitture, nelle quali offre una
dimostrazione della sua concezione di “pittura nello spazio”. Andando contro le
teorie di Belli e dell’architettura razionalista espresse dagli architetti del
comasco Gruppo 7 – che raccoglie, tra gli altri, Luigi Figini, Gino Pollini e
Giuseppe Terragni – Licini rivendica la sostanziale autonomia della pittura,
determinata dalla sua intrinseca poeticità. Il risultato di tali premesse viene
espresso in opere che utilizzano un linguaggio astratto-geometrico per creare
composizioni giocate su ritmi in tensione, asimmetrie, cadenze di superfici di
colore puro. Un ruolo fondamentale nella creazione dei ritmi liciniani è
ricoperto dalla linea, che ha il potere sia di definire la forma geometrica sia
di destabilizzarla, in sostanziale continuità con i quadri di paesaggio degli
anni ’20. Il linguaggio non figurativo espresso dalle opere di Licini, Fontana
e Melotti si inquadra in un fenomeno internazionale, tanto da essere riprodotte
nel 1935 sulla rivista “Abstraction-Création”, il principale mezzo di
discussione e diffusione dell’astrattismo su scala europea. Verso la fine degli
anni ’30 e nei primi anni ’40 i “segni” liciniani – lettere e numeri che
compongono rebus misteriosi – iniziano a guadagnare sempre più importanza.
Osvaldo Licini gioca sulla lettera, sulla cifra, sulla parola e sulle loro
capacità evocative, così che il segno linguistico si trasforma in segno grafico,
sostitutivo dell’immagine. Allusione al significato arcano di queste lettere e
simboli è fatta da Licini in una lettera al filosofo e storico delle religioni
Franco Ciliberti nel 1941: “Ti scrivo dalle viscere della terra, la ‘regione
delle Madri’ forse, dove sono disceso per conservare incolumi alcuni valori
immateriali, non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito
umano. In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario forse, io
cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo.
Perciò estinzione del contingente, per ora . . . Solo allora potrò mostrarti le
mie prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche;
rappresentazioni totemiche, che solo tu con la tua scienza potrai decifrare”.
Ciliberti e il suo Movimento Primordiale esercitano un influsso importante a
livello teorico su Licini: il primordiale inteso come tensione perenne,
aspirazione incessante, tentativo di conquista destinato a fallire di un
principio atavico può essere riscontrato in molti aspetti della sua arte, dalle
forme in bilico alle rappresentazioni angeliche. Da questa prospettiva i numeri
sono stati letti in relazione alla cosmologia pitagorica recuperata proprio da
Ciliberti. Le opere dipinte tra 1944 e 1946 esprimono la vocazione di Licini a
creare personaggi come simboli di una condizione esistenziale. Sono intitolate
a volte semplicemente Personaggio, in seguito Olandese volante,
con riferimento alla leggenda nordica che narra di un marinaio condannato a
errare in eterno sull’oceano su un vascello spettrale per aver sfidato Dio
oltrepassando il Capo di Buona Speranza. In esse le lettere sono scelte prima
di tutto per la loro capacità geometrica, una volta combinate assieme, di
evocare figure umane. È sul finire degli anni ’40 che nuove figure cominciano a
popolare i quadri di Osvaldo Licini. Non è una cesura ma un gesto di
continuità, come ben mostra L’uomo di neve (1952) così affine a Il
capro (1919). Licini trova finalmente un’identità per il suo “personaggio”
e intitola i dipinti dedicati alla luna Amalassunta, un nome che così commenta:
“L’Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità,
personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”. La scelta
del nome fa pensare a un’ispirazione di natura religiosa, alla Vergine Assunta
(il dogma dell’Assunzione della Madonna viene proclamato solennemente da Pio
XII alla fine del 1950), ma il gioco di parole a-maleassunta potrebbe
tuttavia portare a un rovesciamento del mistero religioso. Il nome ricorda
anche la regina ostrogota Amalasunta, che nel VI secolo divenne reggente per il
figlio Alarico e di fatto regina degli Ostrogoti, in un rovesciamento dei ruoli
e dei limiti imposti dal genere che esercita sicuro fascino su Licini. Pur se
agnostico, Licini è attratto dall’aspetto per così dire “a-razionale”,
miracoloso e misterico della religione. Amalassunta-Luna, regina degli
Ostrogoti e dea mitologica è nella tradizione venerata come signora
dell’oltretomba, ma anche come colei che governa i parti e le maree, le nascite
e le rinascite. La ieraticità in Licini non è tuttavia priva di ironia, non
tanto del sacro, quanto della retorica del sacro. Ecco quindi che Amalassunta
fuma, fa sberleffi o gesti scaramantici, ostenta un grottesco naso a trombetta,
assume un aspetto decisamente mascolinizzato o si fa espressione di un
desiderio erotico surreale. In continuità con i primi Personaggi compaiono,
a definirne la fisionomia, numeri alchemici e lettere: linguaggi misteriosi,
destinati a ribadire l’indecifrabilità delle cose. Dopo anni trascorsi in
volontaria solitudine durante la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra, alla
Biennale del 1950 Osvaldo Licini presenta un impressionante gruppo di nove
dipinti di Amalassunta: è l’inizio del successo e della creazione di un
vero e proprio mito dell’artista austero e solitario di Monte Vidon Corrado. La
XXV Biennale adotta uno sguardo retrospettivo sull’arte europea degli inizi del
Novecento con mostre dedicate ai Fauves, al Cubismo e al Futurismo. La
consacrazione dell’arte di Licini avviene dunque in questo contesto, in un
momento di passaggio per l’arte italiana e di grandi novità provenienti
dall’estero e in particolare dall’America. Non solo attraverso la Biennale, ma
soprattutto grazie alla mostra organizzata da Peggy Guggenheim al Museo Correr,
l’Action Painting di Jackson Pollock raggiunge finalmente l’Europa.
Tuttavia Licini prosegue il suo coerente percorso che lo porterà, negli anni
precedenti la sua morte prematura avvenuta nel 1958, a operare una sorta di
sintesi di tematiche e stili pittorici, tramite il recupero della geometria nei
contesti sognanti e visionari già abitati da Amalassunte e Angeli
ribelli. Licini riprende e rafforza i contatti con Giuseppe Marchiori, critico
conosciuto fin dal 1932. Pur avendo dimostrato un interesse costante per la sua
opera, è negli anni ’50 che Marchiori ne diventa il principale esegeta e
promotore, auspicando il pieno riconoscimento di Licini come maestro della
pittura italiana. Nel 1957 organizza, infatti, una notevole retrospettiva al
Centro Culturale Olivetti di Ivrea, seguita l’anno successivo dalla
fondamentale partecipazione alla XXIX Biennale di Venezia, dove, in un
allestimento di Carlo Scarpa, viene riassunto l’originale percorso creativo di
Licini, con confronti tra opere come Ritratto di Nanny (1926) e le
creazioni più recenti a evidenziarne la profonda continuità. Una fotografia
ritrae Peggy Guggenheim in visita alla mostra. Con l’attribuzione del Gran
premio per la pittura, mai prima di allora assegnato a un artista italiano,
Licini ottiene la definitiva consacrazione come figura chiave dell’arte
italiana del Novecento. Unanime è il riconoscimento anche da parte della
critica di un artista che, come scrive Palma Bucarelli, “sia per l’esiguità
della sua produzione sia per la singolarità della sua natura schiva era rimasto
all’ombra nei confronti di figure più appariscenti e rumorose”. Licini si
spegne verso la fine del 1958 a Monte Vidon Corrado. "OSVALDO LICINI. Che un
vento di follia totale mi sollevi". Collezione Peggy
Guggenheim. Dal 22 settembre 2018 al 4 gennaio 2019, Curatori: Luca Massimo
Barbero, curatore associato Collezione Peggy Guggenheim. Undici sale
espositive, 98 opere, ripercorrono il dirompente quanto tormentato percorso
artistico di Osvaldo Licini (1894 – 1958) a sessant’anni esatti dal Gran Premio
per la pittura alla XXIX Biennale di Venezia e dalla sua premature scomparsa,
nel 1958. Il catalogo è edito da Marsilio Editore in italiano e inglese, con
contributi di Luca Massimo Barbero, Federica Pirani, Sileno Salvagnini, Chiara
Mari. Prezzo al pubblico in mostra: € 30. Ingresso alla collezione: intero euro
15; seniors euro 13 (oltre 65 anni); studenti euro 9 (entro i 26 anni); bambini
(0-10 anni) e soci ingresso gratuito. Il biglietto dà diritto all'ingresso alla
mostra, alla collezione permanente, alla Collezione Hannelore B. e Rudolph B.
Schulhof e al Giardino delle Sculture Nasher. Tutti i giorni alle 15.30 il
museo organizza visite guidate gratuite alla mostra. Non è necessaria la
prenotazione. Orario: 10 – 18 chiuso il martedì. Informazioni: mailto:info@guggenheim-venice.it/
www.guggenheim-venice.it
Biglietteria online/prenotazioni/visite guidate: Tel.
041.2405440/419; http://www.vivaticket.it/index.php?nvpg[evento]&id_evento=1212198 Attività didattiche
tel. 041.2405401/444. Come arrivare: Linea 1/2, fermata Accademia.