COURBET A FERRARA
Per la prima volta dopo
quasi cinquant’anni, torna in Italia Gustave Courbet, in una retrospettiva
dedicata a questo genio indiscusso dell’Ottocento e al suo rivoluzionario approccio
alla pittura di paesaggio. Uomo dalla personalità forte e complessa, Courbet
s’impose come padre del realismo, aprendo la strada alla modernità in pittura
con lavori provocatori e antiaccademici la cui principale fonte d’ispirazione
fu la natura. La mostra presenta una cinquantina di tele, tra cui molti
capolavori dell’artista, come Buongiorno signor Courbet, l’autoritratto L’uomo
ferito o le celebri Fanciulle sulle rive della Senna, provenienti dai più
importanti musei del mondo e conduce il visitatore in un percorso attraverso i
luoghi e i temi della sua appassionata rappresentazione del mondo naturale: dai
panorami della natia Franca Contea alle spettacolari marine battute dalla
tempesta, dalle grotte misteriose da cui scaturiscono sorgenti alle cavità
carsiche che si spalancano nei torrenti, dai sensuali nudi immersi in una
vegetazione rigogliosa alle sublimi scene di caccia della maturità. Guardato
come un maestro dagli impressionisti e venerato da Cézanne, Courbet sembra
svelare forme in attesa di essere rese visibili, catturando i fenomeni naturali
più elusivi e transitori. I paesaggi della regione natale, la Franca Contea,
occupano un posto particolare nel cuore dell’artista: la vallata lussureggiante
della Loue, gli altipiani aridi, i fiumi impetuosi, il sottobosco e i cieli
immensi sono rielaborati in infinite e sorprendenti varianti. Motivo
d’ispirazione sono stati anche i luoghi dove ebbe modo di soggiornare o che
visitò nel corso della sua vita, come le coste mediterranee nei pressi di Montpellier,
i paesaggi rocciosi della regione della Mosa in Belgio, le marine della
Normandia, con le onde rigonfie prima di infrangersi sugli scogli, o i laghi
svizzeri dipinti in esilio in un’atmosfera carica di nostalgia. A questi
soggetti si aggiungono le tele che hanno per tema i nudi e gli animali nel
paesaggio, dove Courbet dimostra ancora una volta di essere portatore di uno
sguardo originale sul mondo, ma anche di essere consapevole della grande
tradizione pittorica occidentale, studiata al Louvre. Con Courbet e la natura
il pubblico italiano potrà quindi riscoprire l’opera di uno dei più grandi
pittori dell’Ottocento, un artista che ha lasciato un segno indelebile sulla
sua epoca traghettando l’arte francese dal sogno romantico alla pittura di realtà,
e da questa a un nuovo amore per la natura. «Il bello è nella natura e si
incontra nella realtà sotto le forme più diverse. Appena lo si trova, esso
appartiene all’arte, o piuttosto all’artista che sa vederlo». Così Gustave
Courbet scriveva nella prefazione dell’opuscolo che accompagnava la mostra
personale organizzata nel celebre Padiglione del Realismo, a margine
dell’Esposizione Universale del 1855. Queste poche righe suonano come una vera
e propria dichiarazione di intenti in cui l’artista francese manifesta la
volontà di emanciparsi dai canoni classici e romantici e da una concezione del
paesaggio che lo vedeva perlopiù confinato sullo sfondo di scene storiche,
mitologiche o sacre, per focalizzare il proprio sguardo sulla realtà e sulla natura.
Dopo quasi cinquant’anni dalla retrospettiva che Villa Medici ha dedicato
all’artista, questa mostra intende presentare al pubblico italiano la parabola
creativa e umana del grande maestro dell’Ottocento, focalizzando l’attenzione
sulla pittura di paesaggio e, più in generale, sul fecondo rapporto tra la sua
arte e l’ispirazione derivante dal confronto con motivi presi dalla natura.
Questa chiave di lettura è stata scelta poiché permette di fare luce su un
aspetto assolutamente centrale dell’opera di Courbet: non è un caso che oltre
due terzi della sua produzione siano costituiti da paesaggi e che anche le
opere che trattano temi sociali o che descrivono momenti della vita quotidiana
abbiano spesso al centro l’elemento naturale. Il contributo di Courbet in questo
ambito rivela un atteggiamento radicalmente innovativo tanto nella scelta dei
motivi, quanto nell’uso del colore e nella pratica pittorica. Attraverso una
stesura cromatica gestuale e immediata, che si serve di una gamma inusuale di
strumenti (dalla spatola allo straccio fino al polpastrello), la pittura di
Courbet raggiunge effetti di contrasto e densità materica che sembrano
trasporre sulla tela l’energia vitale della natura stessa. È grazie anche alla
sua opera che un genere ritenuto fino ad allora secondario diventa tra i
principali terreni di sperimentazione della modernità pittorica. I suoi studi
di rocce vengono per esempio presi a modello da Cézanne in alcune composizioni
dei primi anni Sessanta, così come la potenza delle sue marine costituisce un riferimento
per il giovane Monet e per tutta la generazione degli impressionisti. Il
percorso espositivo, costituito da 49 opere provenienti dai principali musei
europei e americani, enfatizza le tematiche salienti della sua attività di
paesaggista. Così i paesaggi “puri” si alternano a quelli con figure e animali,
consentendo di apprezzare i differenti aspetti della sua produzione. La prima
sala della mostra introduce la personalità artistica e umana di Gustave Courbet
attraverso due capolavori che, seppur in maniera diversa, offrono importanti
indicazioni rispetto alle sue scelte poetiche, al suo rapporto con la natura e
al suo temperamento forte e narcisistico. Nell’Autoritratto con cane nero (1842, Parigi, Petit Palais) – la
prima opera del pittore ad essere ammessa al Salon quando era appena
venticinquenne – Courbet si presenta a noi con lo sguardo fiero, nelle vesti di
un elegante dandy in compagnia del suo spaniel sullo sfondo di un paesaggio
roccioso della Franca Contea. Oltre ad ostentare un’innata sicurezza nei propri
mezzi, il pittore evidenzia con questo autoritratto il profondo legame con la
natia Ornans. Un albero, La quercia
di Flagey (1864, Ornans, Musée Gustave Courbet), magnificamente
descritto diversi anni più tardi dal pennello dell’autore fin nei minimi
dettagli, è il monumentale protagonista del secondo dipinto di questa sala.
Ambientato a Flagey – piccolo centro nei pressi di Ornans dove la famiglia
dell’artista possedeva una fattoria che diverrà poi uno dei suoi atelier –
questo paesaggio si presta a molteplici livelli interpretativi. In primo luogo,
può essere letto come autoritratto “in assenza” poiché in quest’imponente
quercia, saldamente radicata al suolo, Courbet sembra voler rispecchiare la
propria personalità schietta e vigorosa, come anche il suo attaccamento alla
Franca Contea. Dalla tela trapela inoltre la sua vicinanza ai circoli
intellettuali e politici che si opponevano all’imperatore: sottotitolando il
dipinto “Quercia di Vercingetorige presso Alesia, Franca Contea”, Courbet si
contrappone alla tesi sostenuta da Napoleone III e dall’entourage imperiale
secondo cui il luogo della storica battaglia tra Galli e Romani era situato in
Borgogna piuttosto che nella Franca Contea. «Per dipingere un paesaggio,
bisogna conoscerlo. Io conosco il mio paese, lo dipingo», scrive senza mezzi
termini Courbet. E appunto la Franca Contea è stata uno dei suoi soggetti
prediletti: l’altopiano calcareo, in cui fiumi come la Loue hanno scolpito
valli profonde, il contrasto perenne tra i boschi verdeggianti e l’arida nudità
dei monti circostanti costituiscono i punti di riferimento della geografia
intima del pittore. Nel 1849, Courbet presenta al Salon La valle della Loue sotto un cielo tempestoso
(c. 1849, Strasburgo, Musée des Beaux-Arts) offrendo una vista
panoramica che, dalle alture abbraccia la valle e si spinge fino all’orizzonte
la cui linea taglia la tela in due parti distinte. Questo dipinto segna il vero
inizio dell’iconografia della Franca Contea che, a partire dal 1855, sarà
declinata in numerose variazioni sul tema – come mostrano i dipinti della Neue
Pinakothek di Monaco, dell’Accademia di Belle Arti di Vienna e della City Art
Gallery di Leeds – e su cui Courbet lavorerà anche quando, durante l’esilio
negli ultimi anni della sua vita, dovrà rimanere forzatamente lontano da Ornans
(Valle della Loue, nei pressi di
Ornans, I meli di papà
Courbet a Ornans). L’uomo ferito (1844-54, Parigi, Musée
d’Orsay) è invece un autoritratto, genere che accompagnò lungamente la carriera
di Courbet e contribuì a consolidarne l’immagine di uomo controcorrente e di
artista radicalmente innovatore. Il dipinto, raffigurante il pittore
abbandonato con gli occhi chiusi e con una ferita all’altezza del cuore, è
l’esito di un intervento che ha modificato l’impianto originario, ancora
visibile ai raggi x, dove Courbet figurava in compagnia della sua amata,
assopita sulla sua spalla. Quando, intorno al 1854, la relazione finì, la
giovane fu sostituita da una spada e dalla macchia rossa di sangue sul petto.
Con questa tela, venata di romanticismo e ispirata dalla pittura dei maestri
studiati al Louvre, l’artista dà voce al registro autobiografico più intimo,
ritraendosi immerso nella natura, appoggiato al tronco di un grande albero.
Altro nodo cruciale nella ricerca pittorica di Courbet è la correlazione tra
paesaggio, figure e animali. Le convenzioni della pittura accademica avevano
subordinato il paesaggio alla figura, l’uno era invariabilmente il complemento
dell’altro. Courbet, invece, elabora composizioni dove figure e sfondo
naturalistico sono integrati. In dipinti come La sorgente (1868, Parigi, Musée d’Orsay) e la Giovane bagnante (1866, New York,
Metropolitan Museum) lavora sul tema del nudo, spogliandolo dei tradizionali
riferimenti mitologici o allegorici: sono audaci figure che incarnano il
piacere sensuale del contatto con gli elementi primari della natura, nei
sottoboschi di Ornans. Nel suo scandaglio delle profonde e rigogliose valli
della sua regione, qui evocate anche dalle due versioni del Ruscello del Puit-Noir (1855,
Washington, National Gallery; 1865, Tolosa, Musée des Augustins), l’artista non
manca di soffermarsi sul rapporto natura-animale, come si può vedere nei Caprioli alla fonte (1868, Fort
Worth, Kimbell Art Museum). La rivoluzione pittorica di Courbet si è spinta
anche nel mondo contemporaneo e nel contesto suburbano, a partire da un dipinto
chiave del suo catalogo: Fanciulle
sulle rive della Senna (1856-57, Parigi, Petit Palais). Con questo
capolavoro l’artista si cimenta con un soggetto inedito e moderno,
“fotografando” due ragazze della cerchia bohémien parigina in un momento
d’abbandono in riva al fiume. L’opera, aspramente criticata al Salon del 1857
per le dimensioni monumentali, insolite per una scena di genere, e per
l’esibita sensualità delle due giovani, inaugurerà la grande fortuna pittorica
delle rive della Senna, celebrata dagli impressionisti una generazione dopo.
Nel 1853 Courbet fa un incontro decisivo per la sua carriera, quello con il
ricco banchiere Alfred Bruyas, originario di Montpellier e avveduto
collezionista. A partire da questo momento Bruyas diventerà per Courbet ancora
prima che mecenate, un vero e proprio amico e confidente. Il sodalizio tra i
due porterà il pittore a trascorrere lunghi soggiorni nel sud della Francia. Per
quest’uomo di montagna, abituato a dipingere le valli di Ornans, l’incontro con
il Mediterraneo è una rivelazione che non manca d’ispirarlo profondamente.
Inebriato dall’aria fine e trasparente e rapito da una luce che va ad
incorporarsi nel variegato e mutevole colore del mare, inizia subito a
dipingere la costa. La riva del mare
a Palavas (c. 1854, Le Havre, Musée André Malraux) ci mostra
l’approccio panteistico dell’artista a questo tipo di paesaggio, con il punto
di vista che si spinge oltre la riva in mezzo agli elementi e una tavolozza
ricca che gli permette di restituire le molte sfumature cromatiche dello
scenario naturale. L’incontro o
Buongiorno signor Courbet (1854, Montpellier, Musée Fabre), invece,
pone l’accento sul rapporto privilegiato del pittore con il suo mecenate e
sulla loro reciproca ammirazione. La tela, indiscutibile manifesto della
produzione pittorica di Courbet, è ambientata nella vasta e soleggiata pianura
che conduce a Montpellier e racconta di un incontro tra l’artista, che sopraggiunge
da Ornans zaino in spalle, e Bruyas, accompagnato dal fedele domestico e dal
cane. Il contrasto cromatico tra l’azzurro intenso del cielo e le tinte marroni
con cui sono connotati i personaggi e il suolo aumenta il carattere emblematico
della scena e l’efficacia, quasi fotografica, del dipinto. Un altro dei motivi
prediletti di Courbet, significativo del suo rapporto con la natura, è
rappresentato dalle grotte della Loue e di un affluente di questa, il Lison,
che dipingerà, in molteplici varianti, a partire dal 1864. L’artista amava la
solitudine di questi spazi remoti, nascosti nella profondità, come egli stesso
scriveva, «delle valli del mio paese». Da una versione all’altra, apporta
piccoli cambiamenti a partire dai medesimi elementi: buio e luce, pietra e
acqua. Il centro delle composizioni è occupato da oscure cavità carsiche da cui
scaturisce l’acqua. In questa serie Courbet spoglia le scene di ogni tocco
pittoresco, preoccupandosi di sperimentare tecniche che gli permettano di
restituire la varietà degli elementi, ad esempio attraverso un uso inedito
della spatola, ed invitando lo spettatore a meditare sulla potenza e il mistero
della natura. Una delle variazioni sul tema è rappresentata dal dipinto della
National Gallery of Art di Washington dove la figura minuscola di un pescatore
esalta l’immensità delle rocce e la profondità della grotta. I dipinti presenti
in questa sezione affrontano due aspetti importanti per comprendere l’arte di
Gustave Courbet: il tema del viaggio e quello del confronto con il suo collega
più anziano Jean- Baptiste Camille Corot. Quella del viaggio, ancora prima che
un’esigenza, fu una vera e grande passione per l’artista: a partire dal 1854,
frequenta le coste del Mediterraneo, per raggiungere più tardi l’Oceano Atlantico;
soggiorna attorno a Fontainebleau; compie lunghi tour in Olanda, Belgio,
Germania e Svizzera. Questi spostamenti furono l’occasione per scoprire nuovi
scenari naturalistici che divennero inediti motivi pittorici consentendogli, al
contempo, di farsi conoscere e creare nuove occasioni di lavoro. Una delle
primissime mete fu il Belgio dove si recò più volte tra il 1855 e il 1857,
lasciando importanti testimonianze, come mostrano i due paesaggi qui
presentati: La Mosa a Freyr (c.
1855-56, Lille, Palais des Beaux-Arts) e La roccia di Bayard, Dinant (c. 1856-58, Cambridge,
Fitzwilliam Museum). La regione della Mosa e le rocce che la circondano furono
ripetutamente motivo di ispirazione per l’artista, soprattutto perché in queste
coste dirupate ritrovava la suggestione delle pareti dell’amata Franca Contea.
L’altro elemento d’interesse è il confronto tra Courbet e Corot. Questi fu tra
i principali esponenti della cosiddetta scuola di Barbizon, un gruppo di
artisti impegnati a rinnovare la pittura di paesaggio tramite il contatto
diretto con la natura, in nome di una maggiore sincerità di rappresentazione.
Questa sarà anche una delle prerogative della produzione paesaggistica di
Courbet. Le finalità analoghe perseguite dai due artisti sono evocate da due
opere che mostrano l’interesse per la struttura geologica del paesaggio, in
particolare delle rocce: Studio
geologico di Courbet (1864, Salinsles- Bains, Grande Saline) e Fontainebleau, miniera abbandonata di
Corot (1850, L’Aia, De Mesdag Collectie). Tra il 1862-63, durante un soggiorno
a Saintes, nel sud ovest della Francia, Courbet si cimenta con un genere che
fino ad allora aveva trascurato, la natura morta. Nell’intraprendere questa
strada, si ricollega ai modelli dell’arte seicentesca italiana e olandese studiati
al Louvre durante la sua formazione, ma introduce elementi fortemente
personali, come il fatto di ambientare le sue composizioni en plein air,
conferendo loro una tonalità sentimentale. In Fiori su un banco (1862, Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire)
un seducente bouquet invade il primo piano, in piena luce, a contrasto con i
toni crepuscolari del panorama che si intravede sullo sfondo dietro la
silhouette di una robusta quercia. Negli anni tra il 1865 e il 1869 Courbet
soggiorna spesso in Normandia: a Trouville, dove incontra Whistler (1865), a
Deauville (1866), a Le Havre (nel 1867) con Monet, e infine ad Étretat (1869).
Qui dipinge una serie di marine molto importanti per il suo percorso artistico.
L’incontro con l’oceano, la violenza delle tempeste e, per contro, la pace che
emana il paesaggio nei giorni in cui il mare si calma, i cieli cangianti e le
architetture naturali della costa con le falesie di gesso lo spingono a
sperimentare nuovi modi di dipingere. In questi paesaggi puri, dove non c’è traccia
di presenza umana, la visione si concentra sulle diverse condizioni
atmosferiche dando vita a due gruppi, le onde e le marine, che incarnano le
diverse anime dei paesaggi che realizza in questa regione. Nella serie delle Onde – di cui si espongono gli
esemplari di Le Havre, Francoforte, Edimburgo ed Orléans – è protagonista un
mare tempestoso, rappresentato tramite un’inquadratura molto ravvicinata, a
ridosso dell’acqua, che non dà respiro allo spettatore, e una pittura molto
materica che dà corpo alle onde nel momento in cui stanno per riversarsi
violentemente contro la riva. Alla violenza delle tempeste oceaniche fa da
contraltare la trasparenza dell’atmosfera, la luce limpida e la quiete
dell’acqua delle Marine,
come nelle tele di Liverpool e di Hartford. Un unicum nella produzione
di Courbet è invece il dipinto raffigurante I levrieri del conte di Choiseul (1866, Saint Louis Art
Museum) che realizzò nell’estate del 1866 a Deauville, quando era ospite del
nobiluomo. L’ampia apertura vero il mare, l’orizzonte e l’intensità cromatica
del dipinto sottolineano la bellezza dei due levrieri, le cui sagome si
stagliano dallo sfondo in tutta la loro eleganza. Le opere de gli anni dell’esilio in Svizzera raccolte
in questa sezione raccontano la parabola paesaggistica di Courbet negli ultimi
anni della sua vita, trascorsi in esilio a La Tour-de-Peilz, sulle rive del
lago Lemano in Svizzera. Denominatore comune delle vedute realizzate in questa
fase (1873-77), è un sentimento quasi romantico della natura, che si configura
come proiezione dei sentimenti del pittore e del suo mondo interiore,
profondamente segnato dalla condizione di esule. Esemplificative in tal senso
sono le due versioni del tramonto sul lago Lemano qui esposte (Vevey, Musée
Jenisch e Londra, National Gallery). Nei cieli tempestosi o infuocati dal
tramonto, nel sottile passaggio tra la terra e l’acqua, nei profili montuosi
che si stagliano all’orizzonte, queste vedute lacustri rappresentano un
microcosmo in cui riverbera il ricordo di diversi luoghi indagati dal pennello
di Courbet, dalle grotte alle marine. Anche la bellezza dei paesaggi montani
cattura l’occhio dell’artista, come si può vedere nel Panorama delle Alpi (c.1876,
Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire). Qui la visione mozzafiato delle cime
innevate, erede del paesaggio romantico e dell’estetica del sublime, risulta
ulteriormente potenziata grazie alla forza del tratto courbettiano, che
restituisce la densità tellurica degli scenari rocciosi, testimoniando la
vitalità creativa dell’artista anche in questo periodo avanzato della sua
carriera. Agli animali selvatici e al tema della caccia Courbet dedicò una
lunga serie di dipinti che ebbero un notevole successo. Con queste opere,
l’artista sembra portare a compimento la sua personale rivoluzione della
gerarchia dei generi iniziata in gioventù, inventandone uno nuovo. È una
pittura che gli permette di abbinare paesaggio, mondo animale, scena di genere
e di attingere a una lunga tradizione pittorica, che spazia dai maestri
fiamminghi del Seicento ai contemporanei inglesi. Tuttavia, Courbet ne rivede
le coordinate tradizionali dipingendo spesso su formati eccezionali e dando
grande rilevanza a un’attività che praticò con grande passione durante tutto il
corso della sua vita. Dalle numerose lettere scritte sull’argomento apprendiamo
infatti che l’artista trascorreva spesso i mesi autunnali e invernali nella
nativa Ornans andando a caccia sulle colline innevate o nei sottoboschi insieme
agli amici d’infanzia. Ne danno testimonianza in questa sezione alcuni dei
capolavori a tema venatorio dipinti tra la fine degli anni Cinquanta e il
decennio successivo. Eccezionale per qualità e dimensioni è il Cervo nell’acqua (1861, Marsiglia,
Musée des Beaux-Arts) che raffigura il momento più drammatico della caccia:
l’animale, ormai stremato dalla fuga, si lancia verso il fiume, quindi verso
una morte sicura. Le dimensioni della tela accentuano il carattere tragico
dell’episodio con il cervo che si staglia su un paesaggio vasto quanto
desolato, ancora intriso di elementi cari al Romanticismo. L’artista amava in
particolare dipingere scene di caccia invernali che gli permettevano di
rappresentare e riprodurre sulla tela le sottigliezze cromatiche della neve. In
una lettera all’amico Jules Castagnary scriveva: «Guarda l’ombra della neve,
com’è azzurra!». Nel suo splendido Cacciatore
a cavallo (1863-64, New Haven, Yale University Art Gallery), ad
esempio, studia con eccezionale maestria i variegati effetti coloristici della
luce e delle ombre sul candore del terreno e giunge a suggerire perfettamente
la profondità atmosferica attraverso una sapiente interpretazione dello spazio
su cui si stagliano le sagome del cavallo e del cacciatore. Soluzioni analoghe
vengono ricercate nella straordinaria rappresentazione della Volpe nella neve (1860, Dallas
Museum of Art). "Courbet e la natura". Ferrara, Palazzo dei Diamanti.
Dal 22 settembre 2018 al 6 gennaio 2019. Organizzatori: Fondazione Ferrara Arte
e Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara. A cura di: Dominique de
Font-Réaulx, Barbara Guidi, Maria Luisa Pacelli, Isolde Pludermacher e Vincent
Pomarède. Aperto tutti i giorni, dalle 9.00 alle 19.00; aperto anche 1
novembre, 8, 25 e 26 dicembre, 1 e 6 gennaio. Informazioni e prenotazioni: tel.
0532 244949 diamanti@comune.fe.it www.palazzodiamanti.it